Filosofia

L'elogio della lentezza

Se velocità non significa sempre efficienza e vantaggio competitivo, le Cittaslow offrono un modello per un nuovo concetto del vivere, del produrre, del consumare basato sulle “qualità lente”

Festina lente, affrettati lentamente, dicevano i padri latini. Oggi, in realtà, non ci sarebbe nessun bisogno di affermare le ragioni di una vita slow: basta guardarsi attorno, vedere e vivere quotidianamente la “fast life” e i suoi effetti su ciascuno di noi. E’ chiaro a tutti, dal manager all’operaio, dall’agricoltore al broker di borsa, dal ricercatore scientifico all’impiegato, quanto lo stile di vita delle società evolute occidentali e orientali sia accelerato, talvolta fino al parossismo. Certo questo è lo scotto da pagare – potrà dire qualcuno – per poterci permettere un alto livello economico di vita, per poter progredire nella scala tecnologica e sperare di affrancare dalla fame e dalla miseria qualche milione in più di persone all’anno, tra quelli che hanno avuto la sfortuna di nascere nel cosiddetto Terzo e Quarto Mondo. Ma da poco più di quindici anni si è sviluppato in Italia, in Europa e poi nel mondo, un movimento culturale spontaneo che si oppone agli effetti indesiderati della velocità a tutti i costi e del produttivismo quantitativo. Si tratta di una vera e propria controcultura che sta crescendo ogni giorno di più, ramificandosi e andando ad includere un universo sempre più vasto di cittadini, associazioni, cooperative, soggetti economici e produttivi.

Quando nel 1989 a Parigi, Carlo Petrini insieme alle delegazioni di 22 nazioni fondò Slow Food, forse non aveva fino in fondo immaginato(o forse sì…) come e quanto “la difesa del tranquillo e il lento piacere materiale contro la follia universale della fast life” avrebbero inciso sulla società contemporanea. Del resto la confusione fra efficienza e frenesia aveva caratterizzato lo sviluppo economico e culturale di tutta la seconda metà del secolo scorso, dominato dallo scontato refrain “più veloci per produrre di più”. Ma così facendo la qualità deve essere considerata valore secondario, elemento da limare fin dove si può, ottenendo a volte imbarazzanti risultati, sia per i prodotti, sia per le realtà urbane. Probabilmente stiamo avvicinandoci velocemente ad un punto di non ritorno e, per fortuna, c’è sempre più gente che se ne rende conto, soprattutto i giovani che dimostrano grande entusiasmo per le «qualità lente». Non si può più nascondere, ad esempio, che il turismo mordi e fuggi distrugga paesaggio e tradizioni, o che l’agricoltura sia scienza ma anche coscienza e responsabilità, verso gli animali, le piante e gli stessi consumatori finali. Forse la fast life ha raggiunto livelli di saturazione tali da impedire ai suoi stessi promotori di trarne vantaggio.

Anche per questo nasce Cittaslow, il movimento internazionale delle “Città del Buon Vivere”, fondato nel 1999 ispirandosi ai concetti di Slow Food. Per comprendere appieno qual è la forza e la modernità dirompente del messaggio delle Cittaslow, bisogna visitarle, attraversarne le piazze, entrare nelle chiese, nei teatri, nei negozi, parlare con la “gente slow”. Solo così sarà possibile, a Positano come a Greve in Chianti, ad Orvieto, a Levanto oppure a Francavilla al mare, Fontanellato, Abbiategrasso o Chiavenna, assorbire quello che i latini chiamavano il “genius loci”. Ma in definitiva, cosa sono le Cittaslow? Sono di certo città come le altre, che molto semplicemente si guardano dentro (e sanno farlo), operando una ricerca selettiva del proprio passato per riconoscersi, e poter poi pensare ed agire nel futuro. In un mondo sempre più globalizzato, che per ciò stesso ci fornisce opportunità inedite di conoscere, comunicare e scambiare merci e culture, cresce l’importanza di quello che i francesi chiamano enologicamente “terroir”, la propria radice territoriale, la propria storia ed esperienza, unica e irripetibile. Per contrastare lo spaesamento, ovvero la perdita di competenza dell’abitante sull’abitato e arginare i “i non luoghi”, gli effetti deleteri di certa (non tutta) globalizzazione, uno dei pochi strumenti a nostra disposizione è la messa in valore dell’identità.

E’ anche un modo per scongiurare quelle che il World Watch Institute chiama “Le catastrofi innaturali”, causate cioè dall’uomo con il suo modello di sviluppo squilibrato. Il percorso intrapreso dalle Cittaslow ad Orvieto nel 1999 fin dall’inizio fu finalizzato alla costituzione di un movimento internazionale delle città “slow”, capace di raccogliere, confrontare e diffondere le iniziative e le esperienze di città nelle quali la cultura del vivere bene e della qualità della vita impegna in via prioritaria le amministrazioni, gli operatori e i cittadini. In questo senso Cittaslow rappresenta un nuovo modello centrato non più sulla crescita continuata ma sulla qualità della vita nelle città: l’ambiente, il patrimonio storico, artistico e culturale, la salvaguardia della valorizzazione delle produzioni tipiche, dei servizi, ma soprattutto le questioni delle identità delle città, del rapporto con gli operatori e i cittadini, dell’accoglienza e dell’ospitalità. Sono proprio le piccole città che più delle metropoli sanno esaltare la propria propensione al viver bene, che sanno sfruttare i paesaggi e le bellezze naturali, valorizzare l’antico patrimonio artistico e monumentale, che sono sempre più attente all’ambiente e alla biodiversità come fattori di ricchezza sviluppando una vera imprenditorializzazione del leisure (dalla wellness all’agriturismo), che sanno esaltare in ogni modo il gusto della diversità, il gusto dell’immaginazione, il gusto della socialità.

Sono queste le componenti fondanti di Cittaslow, questa associazione nata da un’idea del sindaco di Greve in Chianti, Paolo Saturnini, e fatta propria da Carlo Petrini e Slow Food, da Orvieto, Bra, Positano e da altri cinquanta sindaci italiani e altri venti di paesi in Europa. Una metafora giusta che spiega bene l’approccio è proprio quella del vino: non inseguiamo a tutti i costi grandi performance produttive e quantitative a costo di stravolgere il nostro vigneto con cloni di vite alloctoni; al contrario, in Umbria, ad Orvieto come attorno a tutte le altre Cittaslow, l’attenzione massima è oggi sui vitigni tradizionali, il loro progressivo miglioramento e adattamento ai terreni e ai climi locali. Solo così sarà possibile essere concorrenziali sui mercati globali e offrire autenticità, unicità e tradizione. E le Cittaslow tentano di tradurre tutto questo in un progetto di governo della città, a favore dei propri cittadini, prima di tutto, e a favore degli ospiti. Non solo rivalutano la tradizione agricolturale locale, ma l’analisi e la messa in valore riguardano tutto il “saper fare” della città, l’artigianato e la cultura materiale, la socialità, la difesa dell’ambiente e del paesaggio storico, quello urbano e quello naturale. Naturalmente ciò comporta interventi nei settori più disparati, dalle politiche energetiche(Cittaslow è tra l’altro proponente del GEIE europeo Hydrogencities per la promozione dell’economia dell’idrogeno), ai trasporti alternativi, dal riciclo dei rifiuti urbani all’educazione al gusto dei giovani e non. Gli amministratori delle Cittaslow non dimenticano mai che al di sopra delle alte tecnologie, senz’altro necessarie, c’è sempre l’uomo, il cittadino consapevole che è orgoglioso di partecipare ad un progetto di società un po’ più slow, certo, ma che però sa riconciliare le vecchie generazioni con le nuove.

Pier Giorgio Oliveti
direttore Cittaslow